
Articolo di Roberto Tomassini
Fin da quando il suo nome era Nomentum, Mentana era già famosa per la sua uva e per i suoi vini. Gaio Plinio Cecilio Secondo, l’autore della monumentale Historia Naturalis, ricorda del prodigioso valore di 40 jugeri di terra di Nomentum, coltivata a vigna da Aulo Stenelo. E narra inoltre come Rennio Palemone, il Grammatico, avendo comprati alcuni vigneti in Nomento, poté per le cure di Stenelo e per la fertile natura del suolo, renderli tanto migliori nel breve spazio di otto anni, per cui dove gli stessi vigneti erano stati comperati 600 Nummi, la sola vendemmia dell’anno ottavo fu venduta a 400. Ed era tanta la abbondanza delle uve, che in molti accorrevano per vederle.
La tenuta di Polemone fu poi acquistata dal filosofo L. Anneo Seneca, lo sfortunato precettore di Nerone, che vi fece costruire una magnifica villa e qui, ritiratosi a vita privata per contrasti con l’imperatore, trascorreva il suo tempo in meditazioni filosofiche.
Si vantava della sua vigna nomentana come la più bella e la più cara cosa ch’egli avesse mai vista. E la comprò quattro volte più di quanto non era costata dieci anni prima: spesso, in diverse annate, le viti coltivate gli resero sette Culei, cioè 140 anfore di vino per ogni jugero. Né la quantità del vino, come spesso avviene, ne diminuiva la bontà. Anzi il vino Nomentano era reputato prezioso quanto il Falerno. Così molti illustri personaggi Romani ebbero presso Nomentum poderi e ville. Anche Cornelio Nipote nella Vita di Pomponio Attico (109-32 a. C.) fa menzione dei due soli poderi posseduti da quel grand’ uomo e letteterato: «non ebbe alcun parco, nessuna villa sontuosa fuori Roma o al mare, eccetto i poderi di campagna presso Arezzo e a Mentana».
Se Plinio lodava ammirato la villa nomentana di Seneca, Lucio Giunio Moderato Columella, scrittore latino del I secolo, originario di Cadice, nel suo De Rustica, lodava la fecondità del terreno nomentano e la bontà delle uve. In genere soddisfatto del suo podere nomentano era anche il poeta spagnolo M. Valerio Marziale al quale nell’ 84, gli era stato donato un terreno agricolo nei pressi di Nomentum dove si recava nei periodi primaverili e estivi per respirare aria di campagna. Autore di epigrammi, anzi il più importante epigrammista in lingua latina, lodava la tranquillità e la pace della vita campestre ed apprezzava il vino mentanese invecchiato “… quando sarete sazi, vi darò frutta fresca e un vino senza feccia d’una bottiglia nomentana, riempita ai tempi del secondo consolato di Frontino”.
I territori di coltivazione delle diverse qualità delle uve nomentane sono rimasti per secoli uno dei princìpi fondamentali della qualità, della ricercatezza e dell’autenticità dei nostri vini. Vini bianchi principalmente, ma anche un ottimo vino rosso che veniva dato dal Morone.
L’impegno, l’entusiasmo e la costante dedizione all’arte vitivinicola trasmessa di generazione in generazione sono i cardini su cui si consolidava una secolare tradizione. L’ascesa dei vini di Mentana fu inarrestabile fino alla diffusione della fillossera nel XIX secolo che distrusse molti dei vigneti. Implacabile, la fillossera arrivò dal continente americano per annientare le vigne e tutte le varietà autoctone. La viticoltura conosciuta da tutto il mondo antico, medievale e dell’epoca dei lumi era scomparsa per sempre. Nasceva la nuova viticoltura.
Negli anni della ricostituzione dei vigneti, la Malvasia, il Moscato ed altre varietà vennero utilizzati per innestare barbatelle offerte agli agricoltori mentanesi, ed anche la viticoltura locale si arricchì di nuove varietà: l’Uva Italia, la Corniola, il Moscato d’Adda, il Moscato d’Amburgo, il Pizzutello e l’Uva Spagna. Antiche famiglie locali come i Moscatelli, i Lodi, i Pasqui ed altri, in tempo di vendemmia si scambiavano le braccia per la raccolta e si ritrovavano insieme da generazioni dopo il lavoro, quando, banchettando, dopo la delicata raccolta dei grappoli.

La vendemmia, nei miei ricordi, era come un giorno di festa: i pendii, le pianure e i colli risuonavano di canti, di risate, di sberleffi. Di solito iniziava i primi d’ottobre, ma già alla fine di settembre mio nonno cominciava a tirar fuori le botti. Tutti i contadini lo facevano, per cui, davanti alle cantine, lungo le vie di Mentana, si vedevano una serie di contenitori in legno, messi tutti per benino in ordine di crescenza. Era tutto un lavorio perché questi contenitori, dal più piccolo al più grande, andavano lavati e bagnati da dentro e da fuori. Le botti, poi, venivano messe fuori e riempite di acqua affinché rimanessero stagne. Per ingrossarsi e stabilizzare una capienza erano necessari almeno cinque giorni di bagno, per poi essere usate allo scopo. E allora si sentiva dovunque per il paese il battere dei martelli sui cerchi che dovevano essere riassestati, producendo un caratteristico rumore metallico e cupo che si propagava per tutti i vicoli adiacenti.

Nei giorni seguenti, le vigne erano un pullulare di donne, uomini, bambini, le cui voci si univano fino a formare un unico coro festante. Arrivati nella vigna si scaricavano tutti gli attrezzi necessari; bigonce e secchi venivano sistemati tra i filari o sotto il pergolato, pronti per essere riempiti di grappoli che i vendemmiatori staccavano dai tralci della vite con un netto colpo di forbice. Di solito erano le ragazze e le donne che, cogliendo i grappoli, spillavano con i denti e assaporavano i chicchi più grandi e più belli. Era la prima “capata”. Le bigonce erano subito riempite. Due bigonce formano una soma che mio nonno caricava sull’asino e portava nella cantina.
A metà mattinata, cominciava per le strade di Mentana un via vai dei furgoni, somari, muli carichi di bigonce pieni dei preziosi acini, bianchi o rossi, dai quali sarebbe poi sgorgato lo spumeggiante vino mentanese. La sera, terminata la raccolta, nelle cantine l’opera si protraeva sino a notte per «pistà l’uva» che dalla pigiatrice cadeva nel tino sopra al quale veniva appoggiata. Da qui il mosto veniva gettato con dei secchi dentro le botti impostate dritte e senza fondo nell’apertura superiore.
Bisognava però fare attenzione a non riempirle completamente, poiché durante la fermentazione il mosto poteva trasbordare. In questo periodo l’aria si riempiva del gradevolissimo odore del mosto che ribolliva botti poste nelle cantine.
Con le svinate, come si usava dire quando il vino nuovo è pronto da consumare, iniziano le tradizionali cenette tra amici assaggiando il gustoso prodotto di questa o quella cantina. L’odore del mosto era presente ovunque e si respirava in particolare nei vicoli. Quando il mosto fermenta nei tini il liquido si deposita nel fondo con la parte zuccherina che si trasforma gradualmente in alcol. Le vinacce cioè le bucce dei chicchi ed i ‘’raspi’’ tendono ad accumularsi in alto e formano un cappello che si solleva e quasi fuoriesce dalla botte. Un intenso e continuo borbottio dimostrava che il miracolo era in corso.
Mio nonno passava in ogni botte e con una sorta di forcina di legno e riaffondava il cappello rimescolando il tutto. Dopo qualche ora iniziava ancora la ‘’bollitura’’. Così fino allo ‘’svinatura’’ quando dopo assaggi ripetuti ottenuti attraverso la ‘’spillatura’’ (piccola cannula) decideva che il vino aveva raggiunto il grado alcolico giusto ed era abbastanza maturo per essere ‘’svinato’’. Le bucce d’uva e i raspi venivano raccolti piegando la botte sulla pancia e quindi venivano poi alla pressatura con l’ausilio del torchio. Con questa operazione si riusciva a recuperare un altro dieci per cento circa di liquido molto importante per la colorazione del vino.

Oggi la vendemmia non è certamente più quella di un tempo, più fredda e tecnica per salvaguardare l’uva. L’antico mondo contadino stenta a sopravvivere e ben poche sono ormai le campagne rimaste a testimonianza della passata economia del nostro paese, ragion per cui è mi è sembrato giusto ricordare quanto è rimasto di quella civiltà. Era un mondo fatto di tradizioni e condivisioni; un universo fatto di lavoro, concretezza e stretto rapporto con il territorio, ma anche di contatti umani e di una comunicazione basata sul silenzio e l’ascolto. Ripenso alla storia delle nostre famiglie mentanesi quasi tutte legate da una solida parentela, le origini radicate nella tradizione contadina ha radici storiche nel territorio di Mentana, di cui siamo orgogliosi. E ricordo anche la fatica in campagna dei miei nonni contadini, quanto lavoro, quanta dedizione, era necessaria per avere un vino di qualità: giusto apporto tra foglie e frutti sulla pianta… la giusta potatura al tempo opportuno … terreno idoneo, cioè vocazione del territorio. La passione per il lavoro della terra che ci hanno trasmesso, il rispetto per la natura, l’amore per la buona tavola e le tradizioni. Rivedo quello che era Mentana: un paese che viveva una vita, semplice forse, ma densa di contenuto, ispirata a valori morali perenni, ad una sana e coerente impostazione dei rapporti umani. E sono sicuro che in ogni bottiglia che usciva dalla sua cantina, mio nonno, metteva un po’ di sé stesso, di questo patrimonio di valori e conoscenze, tramandato dalla sua famiglia.
Il vino si consumava nei pranzi di famiglia, si beveva con gli ospiti, si regalava e si vendeva anche, con buon profitto. Bevuto nella giusta dose il vino a tavola diventa indispensabile, anche perché è il prezioso alleato di una sana allegria soprattutto quando ci si riunisce con tanti amici…Sembra che con un buon bicchiere di vino si dimenticano per un po’ i problemi, ci si sente più rilassati, più predisposti alla comprensione e più affettuosi. Ed infine, per comprendere l’arte della vendemmia e la produzione del buon vino, mi piace citare il famoso scrittore Goethe che già ai suoi tempi affermava: “la vita è troppo breve per bere un vino mediocre “.
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vendemmia a mentana
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