Giovanni Baglioni è uno dei più virtuosi chitarristi acustici che l’attuale panorama musicale possa offrire. Nato a Roma il 19 maggio 1982 da Paola Massari e Claudio Baglioni, Giovanni non tarda ad appassionarsi alle dodici note in una casa in cui la musica è sempre stata all’ordine del giorno (forse non tutti sanno che nel 1993 anche mamma Paola ha inciso un album, Il vento Matteo).
Avvicinatosi alla chitarra in età adolescenziale, Giovanni inizia a comporre poco dopo i vent’anni. In questa stagione della sua vita scopre la chitarra acustica, tanto che nel 2006 comincia ad esibirsi dal vivo attingendo al repertorio di importanti esponenti della chitarra acustica solista contemporanea.
Nel 2009 pubblica il suo primo album, Anima meccanica, il cui brano eponimo esplora la fantastica e affettuosa ipotesi che anche gli oggetti possano essere percorsi da un respiro vitale. Ad esso seguono tournée di successo e prestigiose collaborazioni (tra cui quelle con Mario Biondi, Stefano Di Battista e suo padre Claudio Baglioni).
Lo scorso 24 marzo ha visto la luce il suo secondo album, Vorrei bastasse. In questa piacevole chiacchierata – tra ricordi, aneddoti e considerazioni personali – Giovanni Baglioni ci fornisce le coordinate per muoverci all’interno di quest’opera e del suo modo di fare musica.
Il bambino Giovanni Baglioni e la musica come e quando si sono odorati per la prima volta?
Premetto di non avere grande contezza dei ricordi d’infanzia. Posso però segnalarne uno, rievocato dai racconti di mia madre in età più avanzata, che è molto indicativo della naturale attrazione nei confronti della musica. L’aneddoto è il seguente: quando da piccolissimo, intorno ai tre anni, trascorrevo del tempo a casa dei miei nonni materni, ero solito chiedere a mio nonno di metter su “il dicco rosso” (non riuscendo ancora ad articolare correttamente la parola “disco”).
In esso era contenuto il Concerto per pianoforte e orchestra n.1 di Čajkovskij, sulle cui note mi muovevo entusiasta e felice, dirigendolo idealmente con le ditine in aria. Non credo potessi apprezzare appieno quella sinfonia nella sua complessità, ma nonostante ciò chiedevo sempre di mettere su “il dicco rosso”.
Quando hai iniziato a pensare che nella vita avresti composto musica?
Ho sempre guardato all’atto compositivo con grandissimo rispetto e grandissima ammirazione; una pratica nobile e delicata da affrontare con grande presa di responsabilità. Mentre pensavo che avrei avuto ancora molta strada da fare prima di potermici approcciare degnamente, ho però intrapreso lo studio di brani di repertorio dei più grandi chitarristi acustici. E questo, quasi senza che me ne accorgessi, mi ha naturalmente reso disponibili le sillabe, le parole per poter articolare un linguaggio musicale che desse forma ai miei pensieri e alle mie idee. Le prime composizioni che ho poi avuto l’ardire di proporre al pubblico sono nate intorno ai 25 anni.
È vero che agli albori della tua carriera ti sei dato un altro cognome, per ovvi motivi?
In un certo senso sì. Ma è accaduto per volontà altrui e scherzosamente. Io stavo già studiando la chitarra acustica e la maniera di suonarla che tuttora propongo. Avevo 24 anni e avevo appena incominciato ad esibirmi in veste di chitarrista acustico in qualche locale, seppure insieme con un cantante, o sfruttando gli spazi limitati in apertura di qualche concerto. Mi sentivo infatti ancora acerbo per poter proporre un’esibizione tutta mia. Mi ritrovai dunque in un villaggio vacanze alle Maldive, dove andai in ferie e dove poi – non so bene come – rimasi a lavorare con l’altisonante qualifica di “polivalente mare” per tre mesi.
Il musicista del luogo, mio compagno di stanza, per sottolineare in maniera canzonatoria il declassamento da vacanziere a lavoratore, mi disse: “Adesso non sei più nel lussuoso bungalow sull’oceano, sei qui con noi nella baracca infuocata al centro dell’isola. Adesso non sei più Giovanni Baglioni, ma Giovanni Marini!”, volendosi riferire, probabilmente, al mio avere a che fare con catamarani e canoe.
Per una serie di peripezie e coincidenze il programma di attività serali del villaggio rimase orfano nella sua rotazione di una casella, e il capo villaggio mi chiese se volessi occuparla io suonando. Senza pensarci troppo acconsentii. Quell’esibizione venne ben accolta oltre ogni aspettativa e così mi ritrovai con un appuntamento fisso a settimana e la consapevolezza che non ero poi così acerbo per potermi proporre come chitarrista acustico solista.

Qual è l’episodio più divertente che hai vissuto per il tuo vero cognome, invece?
Ce ne sono tanti. Uno di questi prevede un cambio vocalico nell’ultima sillaba, un fraintendimento linguistico per cui Baglioni diventa Baglione, e ha visto protagonisti sia a me che mio padre. Nel suo caso, durante una trasferta siciliana, un vicecommissario – con una marcata inflessione sicula – lo appellò dicendogli: “Ma lei è il cantante Baglione?”. Similmente, facendo ingresso in una camera d’albergo, sempre in Sicilia, a me è accaduto di trovare un biglietto in cui si dava il benvenuto al “Sig. Giovanni Baglione”.
Che tipo di compositore sei? Assecondi le epifanie dell’ispirazione o prediligi elaborazioni più lunghe e complesse?
Proprio qualche giorno fa, lavorando a degli spartiti che spero di rilasciare non troppo in là, mi sono reso conto che, oltre alla pirotecnia e all’estetica spettacolare di questo peculiare modo di far suonare la chitarra, esiste in effetti anche un valore della composizione che trascende lo strumento. Credo che nell’atto del comporre siano necessari entrambi i momenti, tanto quello dell’indomita scintilla dell’ispirazione quanto quello dell’addomesticamento e riconduzione della stessa ad una struttura modellata e rifinita. Nei miei lavori mi piace offrire una varietà di composizioni: ci sono quelle più immediate e fresche, più facilmente digeribili, e quelle invece un po’ più articolate e meditabonde, che necessitano di un maggiore impegno anche da parte dell’ascoltatore.
Cos’è per Giovanni Baglioni la musica? Concordi con chi, prima di te, ha detto che “la musica non è mai un’isola ma il mare che fa andar via e fa stare via”?
Non so se utilizzerei questa espressione perché non è mia, ma direi che l’arte, e la bellezza che essa porta con sé, nella nostra condizione di esseri umani sono qualcosa di necessario. Spesso si tende a considerare l’arte come un accessorio della vita, dando priorità ai bisogni fisiologici, perché “prima se deve magna’”. Ma essendo l’uomo un organismo complesso, si può senz’altro dire, senza addentrarsi troppo in questioni di tipo filosofico-spirituale, che la sua fisiologia ha altresì bisogno di un nutrimento ulteriore a quello che richiede lo stomaco.
Ebbene, credo che a questo nutrimento altro l’essere umano provveda proprio per mezzo dell’arte. E la musica, fra le arti, è quella che a me parla di più e che io parlo meglio. È quella che mi emoziona al massimo grado, che tocca le mie corde più profonde e insondabili, che riesce a rimuovere quella crosta di sovrastrutture e razionalità che spesso lasciamo ci si sedimenti addosso.
Il 24 marzo è uscito “Vorrei bastasse”. Raccontacene la gestazione e il desiderio che si cela dietro al nome dell’opera.
Se dovessi raccontarne la gestazione completa potremmo scriverci un romanzo, e anche molto corposo. La gestazione in sé e per sé non è durata tutto il tempo che sappiamo (più o meno quattordici anni, cioè il tempo che separa “Vorrei bastasse” da “Anima Meccanica”, ndr) avendo essa subito molti arresti e lunghe pause di riflessione, di timore, di ripensamento, di perdita di motivazione, di rigetto.
Il nome dell’opera si presta ad una pluralità di possibili interpretazioni, ma nel complesso esprime il tentativo di volermi disfare dell’eccessivo peso di responsabilità che io stesso ho voluto caricarmi sulle spalle, nonché di scrollarmi di dosso anche qualche aspettativa esterna. In ultima analisi, “vorrei bastasse” è la rappresentazione della presa di coscienza circa la legittimità del mio lavoro, un atto liberatorio che mi ha permesso di renderlo pubblico senza più timori, dubbi o vergogne.
Questo nuovo disco può essere ascoltato in continuità con il tuo primo album, “Anima meccanica”, oppure i 14 anni che li separano implicano approcci radicalmente diversi?
Durante la lavorazione di “Vorrei bastasse” ho riascoltato alcuni brani di “Anima meccanica”, ma per motivi esclusivamente legati all’omogeneità e alla congruità del suono. Non ho mai ascoltato i due album per intero e in sequenza. Quindi per rispondere in maniera pertinente a questa domanda dovrei farlo. Posso sicuramente dire che alla base di queste mie due creature c’è un approccio compositivo e tecnico diverso, una diversità spero percepibile in quanto segno di un’avvenuta maturazione. Pur comprendendo la curiosità e il piacere che possono spingere a questo tipo di confronti, “Vorrei bastasse” non è la seconda metà di un doppio concept album.
Il brano d’apertura è “Tea Lemon Mummy”, un dichiarato omaggio a Tommy Emmanuel, la tua stella polare artistica. A chi altri si ispira Giovanni Baglioni?
Più che stella polare, lo definirei la pietra focaia da cui è scaturita la scintilla che ha innescato la mia passione per la chitarra acustica contemporanea. Non voglio ovviamente sminuirlo, perché è un’eccellente artista, un chitarrista di livello mondiale e un intrattenitore senza pari, ma sono un po’ contrario alla mitizzazione degli individui. Oltre a lui molti altri mi hanno aiutato, tramite i loro repertori, a fare ingresso nel mondo della chitarra acustica cosiddetta nuova o contemporanea. Posso citare Preston Reed, Andy McKee, Erik Mongrain e soprattutto Micheal Hedges, che per certi versi può essere considerato il capostipite di questa innovativa concezione della chitarra acustica e del suo utilizzo.
Quanto c’è in “Vorrei bastasse” della sofferenza dovuta alle privazioni degli anni pandemici?
Sicuramente quegli anni sciagurati hanno determinato un ulteriore ritardo, perché se già battagliavo con me stesso e i miei dubbi, quella cappa di bruttura, reciproco sospetto e inimicizia – desiderata e pensata da qualche parte in ossequio al sempreverde principio del “divide et impera” – ha rappresentato un ulteriore ostacolo. La follia di quei tempi mi ha gettato in uno sconforto che rendeva ancor più infertile il terreno su cui il mio disco sarebbe dovuto germogliare.
Lo senti più come un album cittadino, figlio dei soporiferi pomeriggi romani, o come un album rurale, selvaggio?
Molti dei brani presenti nell’album sono legati dal tema dell’evasione, del viaggio della fantasia. Ce ne sono almeno tre o quattro: “Il giro del giorno in 80 mondi” su tutti, ma anche “Miraggio”, “Toro seduto ascendente leone” e per certi versi anche “Emisferi”. Non sono rurali, ma sicuramente sono selvaggi nella misura in cui rimandano ad una dimensione esotica o immaginaria.
Nei brani naturalistici quant’è forte l’impronta del sublime che i luoghi materni di Agordo ti hanno lasciato?
Sono quasi sicuro che qualche frase, qualche battuta musicale di “Anima meccanica” abbia visto la luce o sia stata lavorata in quel di Agordo, ma non ricordo con esattezza se questo sia accaduto anche per “Vorrei bastasse”. Confido comunque che quel posto, che è spesso fonte di ispirazione e motivo di piacere, abbia contribuito a ben disporre il mio stato d’animo. La sorpresa di avere un legame così forte con un luogo nel quale non sono cresciuto fa sì che il tempo trascorso in quelle terre sia sempre umanamente, oltreché e ancor prima che artisticamente, fecondo.
Un’opera dal portato filosofico travolgente: si va dalla metafisica concreta di uno dei più famosi capi indiani alle infinite possibilità di trascendenza che una giornata qualunque può dischiudere. Qual è il brano la cui riuscita semantica ti ha più soddisfatto?
Non è facile comunicare un significato tramite una composizione musicale esclusivamente strumentale e priva di parole. Non a caso ho voluto dotare il disco di un inserto in cui introduco ogni brano con una breve spiegazione. Se per riuscita semantica vogliamo intendere il miglior utilizzo possibile della terminologia musicale in relazione ad un significato, non è per niente facile stabilire dove questo sia accaduto. Un tale tipo di ricerca è infatti una costante di questo chitarrismo e mia in particolare. Pertanto temo di non poter individuare una risposta a questa domanda.
In “Miraggio” oscilli, con affascinanti sonorità arabeggianti, tra reale e irreale. Cosa pensa Giovanni Baglioni attorno al tema dell’illusione?
L’illusione è qualcosa di estremamente affascinante. Il ventaglio di utilizzi che se ne può fare è molto ampio: dall’inganno e dal raggiro al più puro incanto. A tal proposito mi vengono in mente le illusioni ottiche, a tutti ben note. Ma anche quelle acustiche, che invece non tutti conoscono.
Ad esempio, se si ascoltano due suoni a due determinate frequenze, cioè due note, si avrà la sensazione di sentire anche una terza nota che in realtà non c’è, ossia quella generata dalla differenza tra le due frequenze ascoltate. Se si ascoltano cioè una nota a 500 Hz e un’altra a 300 Hz, si avrà la sensazione di ascoltarne anche una terza a 200 Hz, in realtà non emessa. Ora che mi ci fai pensare questa potrebbe essere la direttrice di sviluppo per un brano.
Qual è la valenza di una canzone come “Roots” in questi tempi di violento sradicamento dalla tradizione?
Spero che una qualche valenza ce l’abbia. Sicuramente questo brano ha la sua fonte di ispirazione nel concetto di radicamento, fosse anche solo la posizione nella quale lo devo suonare (ovvero seduto con la chitarra distesa sulle gambe e ad esse ben salda). Non c’è dubbio, poi, che tramite il simbolo delle radici io abbia voluto omaggiare il tema universale della tradizione, che reputo molto importante. C’è stata una grande svalutazione della tradizione, che da qualcosa di sacrale è stato ridotto all’emblema di una catena, di una gabbia che ci costringe ad un passato brutto, chiuso e triste.
Ma ciò di cui io sono fermamente convinto è che la libertà, valore che va altrettanto perseguito, in assenza del rispetto della tradizione – e della conoscenza da cui tale rispetto deriva – rischi di sfociare nel caos. In poche parole, credo che la libertà orfana del punto di riferimento della tradizione rinunci ad essere veramente tale. Per questo è fondamentale non necessariamente rimanere ancorati, ma conoscere, sì, ciò che siamo stati.
L’album ha una chiusa sentimentale. Credi che “Il rischio dell’emozione” ed “Emisferi” possano essere una buona summa della concezione che Giovanni Baglioni ha dell’amore e di tutti quei sentimenti che con esso confinano?
Entrambi i brani trattano della relazione, dell’incontro sentimentale con l’altro, ma lo fanno con sfumature diverse: il primo tratta delle potenzialità della relazione, perché è il fantasticare di uno dei due su ciò che potrebbe essere, mentre il secondo è propriamente la descrizione di un intreccio amoroso. Ciò che li accomuna è il carattere di sospensione: ne “Il rischio dell’emozione” il protagonista è sospeso dalla realtà; in “Emisferi”, invece, è la coppia tutta ad essere in sospensione, in quanto non ha ben chiare le sue sorti. In questa vaghezza sono immerso anch’io; amo la condizione del regista che racconta una storia dagli esiti non inequivocabili essendone anch’egli all’oscuro.
In “Emisferi” hai lasciato tutti a bocca aperta suonando al contempo chitarra e pianoforte. Com’è nata l’idea? Quant’è grande lo sforzo cognitivo necessario per un tale virtuosismo?
L’idea è nata da una ricerca tecnica, che come spesso accade genera dei frutti anche sul piano compositivo e concettuale. La ricerca, nella fattispecie, riguardava il tapping, una tecnica che fa spesso capolino nella mia produzione e che prevede la messa in vibrazione delle corde della chitarra diteggiandole con forza sulla tastiera invece che pizzicandole con la mano forte, la destra. È una tecnica che, se sfruttata al massimo delle sue potenzialità, permette di condensare in una mano l’esecuzione di frasi musicali solitamente eseguite da entrambe le mani.
In “Emisferi” è in un certo senso accaduto proprio questo: ho riassunto l’evoluzione del percorso artistico del brano in una sola mano, finendo per ritrovarmi l’altra completamente libera. A quel punto, la mano libera è stata a tal punto ambiziosa da portarsi non su una parte diversa o inusuale dello stesso strumento, ma addirittura su un altro strumento, cioè il pianoforte. Sicuramente è stato necessario un certo sforzo, come peraltro è necessario un certo sforzo – magari meno palese perché alleggerito dall’abitudine – quando si mettono entrambe le mani su uno stesso strumento. L’unica difficoltà in più può essere rappresentata dalla differenza dei movimenti e del tatto che due strumenti diversi implicano.
Punctum dolens: qual è il figlio prediletto?
Nonostante io abbia studiato il latino in maniera un po’ lavativa, credo di capire la domanda. Non è un punctum dolens, perché so bene, tra tutti quanti, qual è il brano che prediligo. Non me ne vogliano gli altri che pure eseguo con orgoglio e con affetto, ma il figlio prediletto è “Il giro del giorno in 80 mondi”. Se “Emisferi” è il brano più ambizioso dal punto di vista compositivo ed esecutivo, “Il giro del giorno in 80 mondi” lo è forse ancora di più, in particolare dal punto di vista compositivo.
Ho lavorato a lungo e in maniera certosina sulla struttura e sull’organizzazione dei numerosi elementi che lo compongono (il brano dura oltre 8 minuti). Ricordo che ad un certo punto ho iniziato a tracciare dei grafici su un foglio per equilibrare la presenza delle varie sezioni, quasi come fosse un dipinto in cui ogni figura, con la sua dimensione e collocazione, deve fare da contrappeso ad un’altra. Una rappresentazione grafica in cui ogni segmento aveva delle lunghezze proporzionali alla durata delle varie parti del brano che mi ha aiutato nel giustapporre e nell’equilibrare il tutto. Anche per questo lo reputo il pezzo più valido dell’album.
Vent’anni fa, in una delle sue canzoni, tuo padre ti diceva: “E se io non sono stato, allora cerca tu di essere un grand’uomo”. Giunto ai 41 anni di vita, Giovanni Baglioni pensa di aver accolto quest’invito?
Questi sono versi che, per una persona con un forte senso di responsabilità come me, rischiano di essere addirittura pericolosi. Ma a parte le pieghe iperboliche e scherzose che questa risposta può prendere, ritengo che questo tipo di messaggi arrivino con un forte portato emotivo in quanto innanzitutto provenienti da un padre. In più, nel mio caso, ho avuto l’onore di essere stato l’oggetto d’ispirazione o il destinatario di numerose canzoni. Pertanto questi messaggi sono stati recapitati in una forma sublime, accompagnati dalla padronanza, dalla maestria, dalla bellezza che mio padre sa infondere nella sua arte. È come trovarsi a osservare il firmamento stellato: non si sa cos’altro fare se non contemplarlo sentendosi sempre un po’ piccoli al cospetto.
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