
«Per me le feste non hanno più senso. Proprio nessuno. Io non riesco a fare finta di niente, non riesco a mettere le luci, non riesco a sedermi a tavola come se tutto fosse normale. Perché normale non è. Mia figlia Erika è morta e io ho ancora troppe domande senza risposta. Finché non ci sarà giustizia, per me le feste non esistono».
Tiziana Quattrocchi lo dice guardando il tavolino di legno del bar dove ci siamo incontrati. La voce le si spezza spesso, le lacrime arrivano all’improvviso, poi si ferma e riprende. Nel suo sguardo convivono il dolore di una madre e una determinazione ferma, ostinata. «Io non sono qui per farmi compatire. Io voglio raccontare la verità. Voglio che si sappia come sono andate le cose, perché in paese e sui social stanno circolando troppe dicerie, troppe versioni sbagliate».
Erika aveva 27 anni quando è morta quest’estate… «solo 27 anni, con ancora tutta la vita davanti». Viveva a Casali di Mentana, lavorava come parrucchiera a Roma e ogni giorno faceva avanti e indietro con l’autobus. «Era indipendente, aveva una casa sua, grande. Non era una ragazzina. Era una donna. Era uscita da un precedente matrimonio molto difficile, faticoso, e voleva rifarsi una vita».
La relazione che la porterà a risposarsi nasce vicino casa, alla discesa dell’autobus, dove anche il suo futuro marito si trovava per lavoro. «Noi come genitori avevamo delle perplessità, è difficile conciliare realtà e culture diverse, ma quando una figlia ha 26 anni tu puoi solo consigliare. Poi lei decide. E tu resti. Anche se hai paura». Il matrimonio viene celebrato il 24 novembre 2024. «Noi siamo andati al matrimonio anche se non eravamo convinti, perché una madre e un padre non abbandonano una figlia».
Pochi giorni prima del matrimonio, Erika affronta una gravidanza extrauterina che la costringe a un intervento chirurgico delicato. «Era uscita distrutta, aveva già perso una tuba. Nonostante questo, ha voluto sposarsi lo stesso. È andata alle nozze con ancora i punti. Le avevo detto di rimandare, ma non ha voluto ascoltarmi». Di nuovo Tiziana si porta un fazzoletto agli occhi, per asciugare le lacrime.
Le visite in Italia e la presunta gravidanza
Tiziana torna più volte su un punto che considera fondamentale. «Mia figlia quando è partita non stava male, non aveva alcuna patologia, altrimenti i medici non l’avrebbero fatta partire. Questa è una cosa falsa che va chiarita».
Il 7 luglio, Erika si reca dal suo ginecologo di fiducia perché convinta di essere incinta. Gli esami del sangue mostrano valori compatibili con una presunta gravidanza, ma dall’ecografia non si evidenzia alcun feto. «Il medico le spiega chiaramente che la situazione va monitorata, che non c’è urgenza e che non bisogna intervenire in modo affrettato, solo fare verifiche più approfondite e vedere come evolve la situazione».
Il 9 luglio, Erika si reca al Pronto Soccorso dell’Ospedale Villa San Pietro di Roma, accompagnata dalla madre, per fare un’altra ecografia. «Anche lì ci confermano valori compatibili con una presunta gravidanza, ma il feto non si vede. Le consigliano un ricovero per monitorare la situazione, per avere certezza. In parte già prospettano un intervento chirurgico ma Erika rifiuta perché aveva già subito un intervento per una gravidanza extrauterina a inizio novembre e temeva che un nuovo intervento potesse comprometterle per sempre la possibilità di avere figli».
Erika firma la liberatoria ed esce dal Pronto Soccorso. «E voglio dirlo chiaramente: Erika stava bene. Non aveva dolori, non aveva sanguinamenti, non aveva sintomi. Faceva la sua vita normalissima, e questo per i medici è sempre stato un elemento determinante».
Il 13 luglio, Erika torna dal suo ginecologo di fiducia che nel frattempo era rientrato dall’estero. «Il quadro è identico: presunta gravidanza, valori compatibili, ecografia negativa, condizioni di salute buone. Il medico conferma che la situazione è gestibile e che si può attendere».
È in questo contesto che viene confermato il viaggio in Egitto, programmato per consentire ad Erika di andare a conoscere i suoceri. «Il dottore consiglia solo di fare un altro controllo anche lì, visto che sarebbero rimasti un mese. Non perché ci fosse un pericolo immediato».
Non solo, ma una ventina di giorni prima della partenza per l’Egitto c’è un episodio che, secondo Tiziana, segna un punto di rottura nella vita della figlia: la morte del cane Luther, un Amstaff che Erika aveva cresciuto sin da cucciolo. «Luther era la sua casa. Era un cane buono, il suo compagno di vita. Lei diceva sempre: se va via lui, io non ho più radici».
Erika e il padre avevano già trovato una sistemazione temporanea per il cane in vista della partenza per l’Egitto, lasciando 200 euro di acconto. «Lei voleva partire tranquilla. Ma suo marito non gradiva la presenza di quell’animale, anche perché già parlava di far venire i suoi parenti a vivere nella casa di Erika e serviva spazio».
Secondo quanto riferisce Tiziana, una si sarebbe verificato un confronto molto teso tra i due: «Io non ero presente, ma i vicini mi hanno detto che quella sera hanno sentito urlare. Mi hanno detto che litigavano proprio per il cane. Me lo hanno raccontato loro: litigavano forte per Luther».
Il giorno successivo, il cane viene trovato morto.
«Luther è precipitato dal balcone. Io non so come sia successo. Lo dico chiaramente: non ho prove di nulla. Ma so che quel cane viveva in quella casa da tre anni e mezzo, la conosceva stanza per stanza e non si era mai fatto male. Questa è l’unica verità che io posso dire oggi».
Per Tiziana, quel lutto precede tutto il resto.
«Erika è salita sull’aereo già spezzata. Senza Luther non era più la stessa persona. È partita col corpo che cercava di guarire e il cuore che non aveva più una casa dove tornare».
La partenza e l’arrivo in Egitto
Il 31 luglio, Erika parte per l’Egitto insieme alla madre e al marito. «Io ho deciso di accompagnarla anche se mia madre, la nonna di Erika, era ricoverata in ospedale. La situazione era difficile, ma avevo paura a lasciarla andare da sola così lontana da casa e per così tanto tempo».
Arrivati a Shubra Melas, un piccolo paese in Egitto, qualcosa cambia subito. «L’atteggiamento del marito di Erika diventa autoritario. Come se volesse farci capire che lì le regole erano altre. Io non parlavo la lingua, non capivo nulla. Lui era l’unico tramite. Questo significa essere completamente in balia di qualcun altro».
Il 4 agosto, Erika viene portata a Tanta per una visita ginecologica. «Tutto avviene in arabo. Io e mia figlia non capiamo nulla. Lui parla con il medico e poi traduce». Secondo quanto riferito, il medico parla di presunta gravidanza isterica e prescrive un farmaco preciso: Methotrexat Ebewe 5000 mg, da somministrare tramite iniezione, per far tornare subito il ciclo ad Erika.
«Io mi oppongo. Dico che un farmaco del genere non si fa in casa, che va fatto in ospedale, sotto controllo medico. Ma non vengo ascoltata».
Il Methotrexat, il Trixmarc e il peggioramento clinico
L’8 agosto, racconta Tiziana, il farmaco viene procurato dal marito di Erika. «Non viene preso in ospedale. È lui che lo recupera e lo porta a casa».
Per fare l’iniezione viene chiamata una ragazza. «Quando vede il flacone dice che non conosce il dosaggio e si rifiuta di fare la puntura. Se ne va». Dopo circa mezz’ora viene richiamata. «Lui dice di aver risentito il medico e di sapere cosa sia necessario fare».
L’iniezione viene effettuata in casa. «Due punture intramuscolari di grandi dimensioni, con una quantità molto elevata di farmaco, quasi metà flacone». Erika e la madre sentono via WhatsApp il ginecologo italiano. «Il dottore acconsente perché convinto che Erika fosse in ospedale. Non sapeva che la puntura veniva fatta in casa né la quantità. Solo dopo ho scoperto che quel medicinale è in realtà un chemioterapico e che solo in casi eccezionali viene somministrato per gravidanze extra-uterine. E comunque in dosi massime di 50 mg».
Il 9 agosto, il giorno dopo la somministrazione del Methotrexat Ebewe 5000 mg, Erika sta molto male. «La pelle le si squama, le labbra e la gola sono gonfie, la bocca è secca, vomita un liquido verde. Io vedo anche sangue uscire dalle orecchie. Chiedo subito se possiamo andare in ospedale».
La richiesta viene respinta. «Mi dicevano che non serviva, che entro due giorni sarebbe guarita. Io molte cose le sapevo da Erika, che mi mandava dei messaggi con il telefono di nascosto dal marito. Dormivamo su due piani diversi e i contatti tra me e lei erano ridotti al minimo».
Nei giorni successivi, visto il perdurare delle gravi condizioni di Erika, viene coinvolto un medico privato che ipotizza un problema alle vie biliari e prescrive il Trixmarc e altri farmaci. «Anche in questo caso, le cure vengono fatte in casa. Le mettono una flebo appesa a un appendiabiti. Io continuavo a dire: portiamola in ospedale, ma nessuno mi ascolta».
Alessandria e l’accesso tardivo in ospedale
Il 12 agosto, si trasferiscono ad Alessandria d’Egitto. «Erika voleva portarmi a vedere il mare, distrarmi. Ma stava sempre peggio. Era gonfia, non parlava quasi più». In spiaggia riesce a fare pochi passi in acqua e si sente male. «Dobbiamo subito rientrare in casa. Erika aveva fatto quello sforzo solo per me, ma non riusciva davvero a stare in piedi». Di nuovo le lacrime salgono agli occhi di Tiziana.
Il 14 agosto, le condizioni precipitano. «Non sentiva più le gambe. Io lì ho capito che se continuavamo ad aspettare, sarebbe morta». Tiziana si mette vicino alla porta aperta, pronta a scattare in strada. «Dico al marito che se non ci porta subito in ospedale, esco in strada e chiamo la polizia».
A quel punto, dietro queste minacce, Erika e Tiziana vengono portate fuori, ma non in ospedale. «Ci portano in un centro di analisi privato». Davanti all’ingresso, mentre il marito stava parcheggiando, Erika sviene e cade addosso alla madre in mezzo alla strada. «Io inizio a urlare. Escono gli infermieri del centro di analisi, la portano dentro e, vedendo le gravi condizioni di Erika, chiamano un’ambulanza».
L’ambulanza arriva rapidamente. «Essendo cittadina straniera, arrivano subito». Erika viene portata all’Andalusia Hospital Al Shallalat e ricoverata immediatamente in terapia intensiva. «In quel momento ho pensato: finalmente è in ospedale. Ma ho anche capito che eravamo arrivati troppo tardi».
Il ricovero, il nulla osta negato e la morte
In ospedale, Tiziana vive una nuova solitudine. «Non capivo la lingua, non avevo soldi, non avevo internet. Chiedevo di non avere il marito come interprete e cercavo di usare il telefono per tradurre». Ettore, il padre di Erika, dall’Italia, riesce a coinvolgere, tramite la Polizia di Stato, l’Ambasciata al Cairo e il Consolato di Alessandria.
Arriva un medico dell’Ambasciata in Ospedale e comincia a fare interrogatori separati, per capire cosa sia realmente successo: «Io e Erika abbiamo dato la stessa versione dei fatti, il marito no. E da quel momento ho ottenuto di essere informata direttamente tramite il traduttore sul telefono».
Il 15 agosto viene confermato che la situazione è critica. Il padre di Erika, avvisato dello stato di salute della figlia, arriva il 17 agosto. Insieme Tiziana e Ettore tentano di organizzare un aereo medico per riportare Erika in Italia. «Avevamo trovato un aereo, 30 mila euro, il Policlinico Umberto I era pronto ad accoglierla. Ma serviva il nulla osta dell’ospedale egiziano. E quel nulla osta non è mai arrivato».
Le condizioni di Erika continuano a peggiorare. «Non sentiva più le gambe, era piena di tubi, la gola gonfia le impediva quasi di parlare».
Un’ora prima di entrare in coma, Erika chiama la madre vicino a sé. «Con la poca voce che aveva mi ha detto: “Mamma perdonami perché non ti ho ascoltata dall’inizio”. Io le ho detto che non c’era niente da perdonare. Ma lei insisteva. Alla fine le ho detto sì. Per darle pace».
Erika muore il 20 agosto alle ore 22.47. «Quel giorno e quella data non le dimenticherò mai finché sarò in vita. È inutile che tutti dicono di andare avanti, di non pensarci. Questo dolore lo avrò dentro per tutta la vita», e di nuovo Tiziana deve fermare il suo racconto per la commozione.
Le indagini in Egitto, il sequestro e il rientro
«Dopo la morte di Erika è iniziato un altro incubo». La notte stessa vengono avviate le indagini, perché l’aborto in Egitto è reato. Arriva in Ospedale il medico legale dell’Ambasciata, che visita la salma di Erika ancora calda e la pone sotto sequestro. Tiziana chiede di vestire la figlia. «Era l’ultima cosa che potevo fare». Anche se poi non riuscirà a fare neanche quello.
Tiziana, il padre di Erika e il marito vengono accompagnati in Questura. «Parlavano tutti in arabo. Noi non capivamo nulla. Io e il mio ex-marito eravamo soli».
Il giorno dopo vengono portati in Procura. Per accedere alle stanze del procuratore hanno dovuto attraversare un ponte che era immediatamente sopra le carceri. «Siamo passati sopra le celle, con i detenuti che allungavano le braccia. Una scena da film». In aula parla una persona terza, sempre in arabo, un amico del marito di Erika. «Sembrava che fosse lui il migliore amico di Erika. Io non ce l’ho fatta più e ho iniziato a urlare. Ho detto che nessuno aveva il diritto di parlare al posto mio di mia figlia».
Il giudice allora fa allontanare gli altri e, tramite il traduttore del telefono, pone a Tiziana tre domande: se stia accusando qualcuno, se voglia accusare qualcuno, se voglia riportare la figlia in Italia. «Ho risposto sì a tutte e tre».
Il 26 agosto Tiziana ed Ettore rientrano in Italia senza il corpo di Erika. La bara arriva il 27 agosto, sigillata. «C’è stato un problema con un documento. Io ho anche il dubbio che dentro quella bara non ci fosse Erika. Quando vivi certe cose, non riesci più a fidarti».
Il 28 agosto si tengono i funerali. «C’era talmente tanta gente che è dovuta intervenire la protezione civile».
Oggi
Oggi la ricostruzione è stata formalizzata anche in una denuncia depositata alla Procura della Repubblica di Roma. Il Comune di Mentana è informato, così come un parlamentare che ha presentato un’interrogazione sul caso.
«La questione si sta facendo sempre più complicata», continua Tiziana. «Sono partite delle indagini sul matrimonio di Erika, perché sembra che ci fossero delle irregolarità sostanziali e quindi potrebbe non essere valido. Inoltre, il 13 dicembre a casa di mia madre sono entrati dei ladri e hanno cercato in dei luoghi specifici di casa senza rubare nulla. Avevano i volti incappucciati e non hanno mai parlato tra di loro. Sembrava stessero cercando qualcosa di specifico, e ora abbiamo tutti paura».
«Io non cerco vendetta», conclude Tiziana. «Io voglio verità. Voglio giustizia. E voglio che le ragazze capiscano che non ci si può fermare alle apparenze. Quando si è innamorate non si è lucide. Bisogna ascoltare chi ti vuole bene».
Poi torna al punto da cui tutto è partito. «Finché Erika non avrà giustizia, per me le feste non hanno senso».
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